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dimanche 29 avril 2018

Ottone Rosai, Via San Leonardo




«Le vie di questi anni sono sempre più oscure, nel ricordo : notturne, piovose o caldissime ; ed io e lui accanto, muti, staccati o uniti col braccio, a trepidare di qualche voce lontana, di un canto che si alzasse dalle siepi di un giardino o di un fischio. (Ricordi, Ottone, le tre note modulate di Piazza Mentana che poi riscoprimmo eguali alzarsi una notte in Piazza Santa Maria Novella ?). Non vi è dolcezza in questi ricordi, anche se fu il tempo della nostra amicizia più delicata. I nostri spiriti si avvicinavano probabilmente in nome del loro dolore, oltre ogni più consueta comprensione.»

Piero Santi  Diario (1943-1946)







Je cite ici un extrait du très beau livre que Piero Santi a consacré au peintre florentin Ottone Rosai (Ritratto di Rosai, [Portrait de Rosai]) ; il y évoque l'amitié de près de trente ans qui les a liés, depuis le début des années trente jusqu'à la mort du peintre en 1957. Le passage ci-dessous se situe dans les années 1933-1934, au moment où Rosai s'installe dans son atelier de la Via San Leonardo, une rue des hauteurs de Florence, dans les parages du Forte Belvedere, qu'il représentera très souvent dans ses toiles :


Giungemmo al Ponte Vecchio e lo attraversammo. Rosai aveva cambiato studio ; abbandonato quello di Via Villamagna, aveva scoperto una casetta rustica in una delle strade di più rara bellezza, la via San Leonardo, sulla collina a sud imminente sul centro cittadino. Scrive Rosai :  «Tutto era pronto per l’inizio di una nuova vita e di un nuovo lavoro. Infatti, le colline, le valli, le strade di quassù non avevano più niente a che fare con le passate visioni dei caffè, dei biliardi e delle cànove cittadine né c’era più niente in comune con Via Toscanella, San Frediano, e il Pian di Ripoli. Le piante, gli uomini, il cielo più aperto e avvicinato, l’accordo combinato tra campagna e città, questa fusione perfetta tra archittetura e natura, l’equilibrato ondeggiare delle colline nel cielo, la luce, il colore nel quale le forme s’involtano : tutto è nuovo per me quanto la voglia di osservare e sperare che ho negli occhi e in tutto il mio essere». 

(...) 

Alla fine giungemmo davanti allo studio. Rosai trasse fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni la chiave, la introdusse nella serratura e dette molti giri. La porticina si aperse. Ottone entrò e accese la luce. Di fronte le strette scale erano ripide. Ottone disse : «Sali». Io salii mentre Ottone mi gridava, dal basso : «Accendi la luce, a destra». Trovai l’interrutore sul muro rugoso. 

Un grande paesaggio era sul cavalletto : una strada in curva, una Via San Leonardo, rivista attraverso la fantasia, meglio sarebbe dire inventata : altro che San Leonardo ! Osservavo il quadro e non provavo nessuna emozione. Rosai non era ancora salito, lo udivo, di sotto, muover qualcosa, poi camminare ; infine silenzio ; poi di nuovo qualche rumore minuto. Ed io guardai ancora il quadro, il grigio del cielo illuminato da una pennellata bianca, il rosso cupo dei muri e il cipresso panciuto che era poi un cipresso per modo di dire : era un verde-azzurro, era un albero di Rosai o una colonna, che ne sapevo. 

Cercavo le parole che avrei dovuto dire quando Rosai fosse finalmente venuto di sopra. Udii il suo passo pesante per le scale, poi lo vidi entrare con alcune tele dipinte sotto il braccio. Ed ecco mi guardò : che sguardo era mai quello : sembrava assente, vuoto, come dire ?, cieco, un poco lo sguardo di un bambino, che non sai bene se ancora veda ; ma “sembrava”, perché, nella sostanza, come imparai in séguito, quello sguardo era piuttosto cupo, quasi cattivo : e lo aveva quando lo coglieva il timore che l’altro non capisse. Dopo l’oscurità della strada e le confessioni che mi aveva fatte, quello sguardo mi apparve, d’improvviso, soltanto ironico ; poi mi parve impudico (non saprei dire per quale motivo) : le palpebre gli si strinsero sugli occhi diventati più piccoli, grigiastri (a mo’ dei gatti) ; mi fissò senza dir niente ; era la sua povera prova contro di me : chi ero ? che capivo della sua pittura ? non ero uno dei tanti, presuntuoso e grullo, senza amore e senza generosità ? 

Infine mi decisi a parlare, traendo fuori dal groviglio indistinto dei sentimenti e delle parole che giacevano in fondo alla gola, i più semplici : mi riuscì, e fu un bel fatto ! Presi ardire : acoltavo le mie parole correr via pulite e sincere, diventavano sempre più oneste, sempre più chiare ; era un bel fatto davvero esser riuscito a cavarmela rimanendo dentro i confini dell’onestà. Fui certo di aver vinto la battaglia : non tanto per l’attenzione con la quale Ottone aveva seguito le mie frasi, quanto per il fatto che ogni timore era scomparso dentro di me. Ottone aveva lo sguardo umile, ora ; commosso : questo giovinastrello letterato aveva capito qualcosa della sua ansia ! Stette per un poco zitto, poi venne fuori l’elogio caloroso : «non ho mai udito nessuno che sia entrato subito come te dentro quello che volevo esprimere, che abbia avvertito così alla svelta i miei desideri e le mie ansie». Era commosso fino in fondo ; mi accorsi di quanto fosse solo. Questa maledetta solitudine ti aggancia sempre sul più bello o sul più brutto, come vuoi. Io stavo lì, abbastanza grullo : la mia vittoria stava diventando troppo facile : che groviglio di sensazioni mediocri mi assaliva ! E subito dopo mi tentò lo specchio d’acqua dove potevo veder riflesso ciò che sentivo ; ero lì a riscaldare la mia gioia ; ma lo spirito del bene ti gioca sempre qualche buffo scherzo, ed ecco che, guardando ancora il quadro, mi accorsi che tutto quel che avevo detto era vero : il quadro era bello sul serio, il cipresso era l’affermazione di una fede nella natura, amato dopo che il pittore l’aveva sofferto fino in fondo nella distanza da sé e magari nell’odio ; Rosai era grande, aveva riversato tutta la sua commozione, la sua solitudine e la sua gelosia o la sua irritazione, in quei colori : nelle pennellate violente ed estranee ad una grazia, nella linea con la quale la strada tentava di raggiungere il cosidetto infinito, che non sai che sia, che solo i poeti possono vedere, almeno così si dice da secoli, quello dei sovrumani silenzi e della quiete profondissima.

Piero Santi  Ritratto di Rosai Da Donato Editore, Bari, 1966









Nous arrivâmes au Ponte Vecchio et nous le traversâmes. Rosai avait changé d’atelier ; il avait abandonné celui de Via Villamagna et avait trouvé une petite maison rustique dans une des plus belles rues de Florence, la Via San Leonardo, au sud, sur la colline qui surplombe le centre de la ville. Rosai écrit à ce propos : «Tout était prêt pour le commencement d’une nouvelle vie et d’un nouveau travail. En effet, les collines, les vallées, les rues d’ici n’avaient plus rien à voir avec les cafés, les billards, les estaminets citadins, et elles n’avaient rien de commun avec la Via Toscanella, San Frediano ou Pian di Ripoli. La végétation, les hommes, le ciel plus ouvert et plus proche, l’accord réalisé entre la campagne et la ville, cette fusion parfaite entre l’architecture et la nature, le déploiement harmonieux des collines dans le ciel, la lumière, les couleurs qui enveloppent les formes : tout est nouveau pour moi, autant que l’envie d’observer et d’espérer que j’ai dans les yeux et dans tout mon être.» 

(...) 

Nous arrivâmes enfin devant l’atelier. Rosai sortit de l’une des poches de son pantalon la clé, l’introduisit dans la serrure et donna plusieurs tours. La petite porte s’ouvrit. Ottone entra et alluma la lumière. Je me trouvai devant un escalier raide. Ottone dit : «Monte». Je montai tandis que, d’en bas, Ottone me criait : «Allume la lumière, à droite». Je trouvai l’interrupteur sur le mur rugueux. 

Sur le chevalet, il y avait un grand paysage : une rue qui tournait, une Via San Leonardo, revue par l’imagination du peintre, ou plutôt réinventée : bien autre chose que la Via San Leonardo ! Je regardais le tableau sans éprouver aucune émotion. Rosai n’était pas encore monté, je l’entendais, en bas, déplacer quelque chose, puis marcher ; enfin, le silence ; puis de nouveau quelques petits bruits. Et je regardai encore le tableau, le gris du ciel illuminé par une touche de blanc, le rouge sombre des murs et le cyprès pansu qui était autre chose qu’un cyprès : c’était un vert-azur, c’était un arbre de Rosai ou une colonne, je n’en savais rien. 

Je cherchais les paroles qu’il me faudrait prononcer quand Rosai serait finalement monté à l’étage. J’entendis son pas lourd dans l’escalier, puis je le vis entrer avec quelques toiles sous le bras. Il me regarda : qu’y avait-il dans ce regard ? Il semblait absent, vide, comment dire ?, aveugle, un peu le regard d’un enfant, dont on n’est pas sûr qu’il voie déjà. Mais je dis bien "semblait", parce qu’en réalité, comme je m’en aperçus par la suite, ce regard était plutôt sombre, presque méchant : c’est celui qu’il avait quand s’emparait de lui la crainte que l’autre ne comprenne pas. Après l’obscurité de la rue et les confessions qu’il m’avait faites, ce regard me sembla, sur le moment, seulement ironique ; puis il me parut impudique (je ne saurais pas dire pourquoi) : les paupières recouvrirent les yeux devenus plus petits, grisâtres (un peu comme ceux des chats) ; il me fixa sans rien dire ; c’était une façon de me mettre au défi : qui étais-je ? qu’est-ce que je pouvais bien comprendre à sa peinture ? n’étais-je pas moi aussi comme tant d’autres, présomptueux et sot, sans amour et sans générosité ? 

Je me décidai enfin à parler, en extrayant de l’enchevêtrement confus de mots et de sentiments qui se pressaient en moi, les plus simples : cela me réussit, et ce fut un choix heureux ! Je pris de l’assurance : j’écoutais mes paroles qui s’écoulaient, nettes et sincères, elles devenaient toujours plus honnêtes, toujours plus claires ; j’étais vraiment heureux d’avoir réussi à me tirer d’affaire en restant dans les limites de l’honnêteté. Je fus certain d’avoir gagné la bataille : pas tellement à cause de l’attention avec laquelle Ottone avait suivi mon discours, mais plutôt parce que je ne sentais plus en moi aucune crainte. Ottone avait maintenant un regard humble ; il était ému : ce petit jeune homme lettré avait compris quelque chose à son angoisse ! Il resta un moment silencieux, puis se lança dans un éloge chaleureux : «Avant toi, je n’ai jamais entendu personne qui ait compris immédiatement ce que je voulais exprimer, qui ait perçu aussi rapidement mes désirs et mes angoisses». Il était bouleversé ; je compris à quel point il était seul. Cette maudite solitude qui s’empare toujours de nous au meilleur moment, ou au pire, selon les cas. Je restai là, comme un nigaud : ma victoire devenait trop facile ; j’étais assailli par un amas confus de sensations médiocres ! Et aussitôt après, je fus attiré par le miroir d’eau où je pouvais voir se refléter mes sentiments ; je me complaisais à étaler ma joie ; mais l’esprit du bien nous joue toujours de drôles de tours, et voilà que, en regardant encore le tableau, je m’aperçus que tout ce que j’avais dit était vrai : le tableau était vraiment beau, le cyprès était l’affirmation d’une foi dans la nature, aimé après que le peintre en ait épuisé la souffrance dans la distance de soi et peut-être dans la haine ; Rosai était grand, il avait déversé toute son émotion, sa solitude, sa jalousie ou son irritation dans ses couleurs : dans les coups de pinceaux violents et étrangers à toute grâce, dans le tracé avec lequel la route tentait de rejoindre ce que l'on appelle l'infini, dont on  ignore ce qu’il est, que seuls les poètes peuvent voir, c’est au moins ce que l’on dit depuis des siècles, l’infini des silences surhumains et de la paix la plus profonde. 

(Traduction personnelle









Images : en haut, Site Flickr

au centre, (1) JHG Hendriks  (Site Flickr)

(2) Ottone Rosai Via San Leonardo, 1952

en bas, (1) Site Flickr

(2) Russell McNeil  (Site Flickr)



vendredi 27 avril 2018

Nella penombra (Dans la pénombre)




L'origine di penombra è paene ombra, quasi ombra, fusione di Yang e di Yin in cui sembra prevalere Yin, su cui nell'usarlo non si riflette : la maggior parte delle parole sono adoperate avventatamente. Nel parlato la penombra è quasi scomparsa, perché non è tollerata dal linguaggio tecnico e perché è cessata la figura ambiguamente colorata, il punto di ambiente in cui la collocavamo. Si dice "l'ombra della morte" (umbra mortis – tzalmàwet) senza vederla : invece è nata come visione e nel salmo 23 è una valle, un luogo che si percorre, con Qualcuno o soli. È bello "vita umbratile", il punto di ambiente è la penombra. Certe vite sono state tutte nel segno della penombra (Kavafis, la mia forse, il mese di Elùl, la Virgo). Shabbàt e giorno di Ramadàn cessano nello sfumare in penombra della luce diurna, il tragico greco e raciniano non conoscono penombre. La linea d'ombra di The Shadow Line è un impalpabile istante di penombra, la casa giapponese tradizionale su cui ci ha illuminati Junichiro Tanizaki è tutta in penombra, la poesia virgiliana (anche l'epica) è poesia di penombra, e il transito degli etruschi sulla terra, e il teatro di Cechov e... Senza penombra non c'è il riposo, che è tutto in quel cerchio, non c'è neppure ascolto, di voci o musica... Nel pizzicato del violino e della chitarra si può udire la penombra singhiozzare, senza molestia, come se parlasse. 

Guido Ceronetti  La pazienza dell'arrostito  Adelphi Edizioni, 1990 






L'origine de pénombre est paene umbra, presque ombre, fusion du Yang et du Yin où semble prévaloir le Yin, et l'on n'y réfléchit pas quand on l'utilise : la plupart des mots sont employés étourdiment. Dans le parler la pénombre a quasiment disparu, parce qu'elle n'est pas tolérée par le langage technique, qu'a disparu la figure ambigument colorée, le point d'atmosphère où nous la placions. On dit "l'ombre de la mort" (umbra mortis — tzalmàwet) sans la voir ; pourtant, elle est née comme une vision et dans le psaume 23 c'est une vallée, un lieu que l'on parcourt, avec Quelqu'un ou seul. C'est beau une "vie ombragée", le point d'atmosphère est la pénombre. Certaines vies ont été entièrement placées sous le signe de la pénombre (Cavafis, la mienne peut-être, le mois d'Eloul, la Virgo). Shabatt et jour du Ramadan finissent quand la lumière du jour s'estompe dans la pénombre, le tragique grec et racinien ne connaissent pas de pénombres. La ligne d'ombre de The Shadow Line est un impalpable instant de pénombre, la maison japonaise traditionnelle sur laquelle Junichiro Tanizaki nous a éclairés est tout entière dans la pénombre, la poésie de Virgile (même l'épique) est une poésie de pénombre, et le passage des Étrusques sur la terre, et le théâtre de Tchekhov et... Sans pénombre, il n'y a pas de repos, qui est tout dans ce cercle, pas même l'écoute de la voix ou de la musique... Dans le pizzicato du violon et de la guitare on peut entendre la pénombre sangloter, sans désagrément, comme si elle parlait.

Guido Ceronetti  La patience du brûlé  Éditions Albin Michel, 1995  (Traduction : Diane Ménard)   






Images : en haut et en bas, Nicolas Droz  (Site Flickr

au centre, Site Flickr



lundi 23 avril 2018

Father Death Blues





Father Death Blues 

Hey Father Death, I'm flying home
Hey poor man, you're all alone
Hey old daddy, I know where I'm going

Father Death, Don't cry any more
Mama's there, underneath the floor
Brother Death, please mind the store

Old Aunty Death Don't hide your bones
Old Uncle Death I hear your groans
O Sister Death how sweet your moans

O Children Deaths go breathe your breaths
Sobbing breasts'll ease your Deaths
Pain is gone, tears take the rest

Genius Death your art is done
Lover Death your body's gone
Father Death I'm coming home

Guru Death your words are true
Teacher Death I do thank you
For inspiring me to sing this Blues

Buddha Death, I wake with you
Dharma Death, your mind is new
Sangha Death, we'll work it through

Suffering is what was born
Ignorance made me forlorn
Tearful truths I cannot scorn

Father Breath once more farewell
Birth you gave was no thing ill
My heart is still, as time will tell.

jeudi 19 avril 2018

Sleeping (Dormir) (Dormire)




"Luci care, care, care e gradite,
Dormite, dormite, homai dormite, dormite..."






He slept on his hands.
On a rock.
On his feet.
On someone else's feet.
He slept on buses, trains, in airplanes.
Slept on duty.
Slept beside the road.
Slept on a sack of apples.
He slept in a pay toilet.
In a hayloft.
In the Super Dome.
Slept in a Jaguar, and in the back of a pickup.
Slept in theaters.
In jail.
On boats.
He slept in line shacks and, once, in a castle.
Slept in the rain.
In blistering sun he slept.
On horseback.
He slept in chairs, churches, in fancy hotels.
He slept under strange roofs all his life.
Now he sleeps under the earth.
Sleeps on and on.
Like an old king.

Raymond Carver  Ultramarine, Vintage Books,1986




Il a dormi sur les mains.
Sur un rocher.
Sur ses pieds.
Sur les pieds de quelqu'un d'autre.
Il a dormi dans des bus, des trains, des avions.
Dormi pendant le service.
Dormi au bord de la route.
Dormi sur un sac de pommes.
Il a dormi dans une sanisette.
Dans un grenier à foin.
Au Super Dome.
Dormi dans une Jaguar et sur la plate-forme d'un pick-up.
Dormi au théâtre.
En prison.
Sur des bateaux.
Il a dormi dans des baraquements et, une fois, dans un château.
Dormi sous la pluie.
Sous un soleil ardent il a dormi.
A cheval.
Il a dormi sur des chaises, dans des églises, des hôtels de luxe.
Il a dormi sous des toits étrangers toute sa vie.
Maintenant il dort sous la terre.
Il n'en finit pas de dormir.
Comme un vieux roi.


Traduction : Emmanuel Moses 




Ha dormito sulle proprie mani.
Su una pietra.
In piedi. Sui piedi di qualcun altro.
Ha dormito su autobus, treni, aerei.
Ha dormito sul lavoro.
Ha dormito per la strada.
Ha dormito su un sacco pieno di mele.
Ha dormito in una latrina a pagamento.
In un fienile.
Nel Super Dome.
Ha dormito in una Jaguar e sul retro d'un furgoncino.
Ha dormito a teatro.
In galera.
In barca.
Ha dormito in casotti ferroviari e, una volta, in un castello.
Ha dormito sotto la pioggia.
Sotto il sole rovente, ha dormito.
A cavallo.
Ha dormito su sedie, banchi di chiesa e alberghi alla moda.
Ha dormito sotto strani tetti tutta la vita.
E adesso dorme sottoterra.
Dorme, dorme e non si sveglia mai.
Come un vecchio re.

Traduzione : Riccardo Duranti 








 Images : (1) Site Flickr



(4) Jérémie Rocher  (Site Flickr)

(5) Jori Avlis  (Site Flickr)



dimanche 15 avril 2018

Cavatine



In Memoriam Vittorio Taviani  (San Miniato, 20 septembre 1929 - Rome, 15 avril 2018)







« L'ho perduta ! Me meschina !
Ah, chi sa dove sarà ? »


Aria di Barbarina, Le Nozze di Figaro (Mozart-Da Ponte)


Extrait de Kaos, de Paolo et Vittorio Taviani (1983)


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mercredi 11 avril 2018

Calm




Plieux, vendredi 19 mai 2017, minuit et demi. Un jour, dans une salle sombre de la Wallace Collection, à Londres, j'ai été illuminé, comme elle l'était elle-même, par des tableaux hollandais à travers lesquels s'engouffrait le ciel, jusqu'en les profondeurs bien cirées de l'antique édifice victorien, aux lourds rideaux tirés. C'étaient des marines de Wilhem Van de Velde le Jeune, un peintre auquel je n'avais jamais porté attention plus tôt et que je distinguais à peine, jusque là, des autres membres de son abondante dynastie. Cependant je ne l'ai jamais oublié. 





La plupart de ces tableaux avaient dans leur titre, en vigie liminaire, le mot : Calm : Dutch Ships coming to Anchor ; Calm : Fishing Boats at Low Water ; Calm : Fishing Boats under Sail (le plus beau) : Calm : a Fishing Boat at Anchor ; Calm : French Merchant Ships at Anchor, etc. Et de fait ils étaient parfaitement calmes. La mer s'y montrait rigoureusement étale, toute en reflets, comme un parquet de salle de bal. Tout y semblait dans l'attente d'un dieu, ou de rien, ou dans la jouissance d'un silence. Les bateaux aux coques brunes, ou noires, parfois relevées d'un peu de cramoisi, y déployaient de larges voiles blanches, ou grises, ou tabac, lie-de-vin, qui se détachaient tranquillement sur l'azur, dans la lumière. Et derrière elles, au-dessus d'elles, ces ciels inoubliables que j'ai dits, bleu ciel et blanc, dont l'allégresse immobile, malgré les nuages blancs qui les parcouraient, irradiait vers les boiseries acajou, vers les autres tableaux, vers les visiteurs qui passaient, en contre-jour, et dont on n'eût pas du tout été surpris si une grande ombre s'en fût détachée à travers la pénombre. On eût juré, ces toiles de dimensions modestes, qu'elles étaient de formidables machines à produire de la sérénité éclairée.




Le souvenir d'elles me vient souvent, et cette après-midi encore comme nous marchions sur le chemin de la Rouquette, sous un énorme ciel bleu tacheté de blanc qu'un gentil vent un peu frisquet rendait particulièrement lumineux, impatient que tout vibre dans sa grande clarté et dans sa transparence — les arbres, les âmes, les châteaux, le chemin blanc.

Renaud Camus  Juste avant après, Journal 2017, Chez l'auteur, 2018







Images : en haut, Wilhem Van de Velde le Jeune  Calm : Fishing Boats Under Sail (1655-60)

plus bas, (1) Wilhem Van de Velde le Jeune  Calm : Dutch Ships Coming to Anchor (1665-70)

(2) Wilhem Van de Velde  Dutch Vessels lying Inshore in a Calm, one Saluting (1660)

(3) Wilhem Van de Velde Le Jeune  Dutch men-o'-war and other shipping in a Calm (c. 1665)

(4) Renaud Camus Grand Paysage avec un personnage après la pluie (Site Flickr)



mercredi 4 avril 2018

Prendre le large




Le Large, chanté par Françoise Hardy (Paroles et musique : La Grande Sophie, 2018)

Aucune histoire banale gravée dans ma mémoire 
 Aucun bateau pirate ne prendra le pouvoir 
 Aucune étoile filante me laissera dans le noir 
 Aucun trac, aucun... 

 Et demain tout ira bien, tout sera loin 
 Là au final quand je prendrai le large 
Tout sera loin, donne moi la main 
Là au final quand je prendrai le large 

Aucune larme aucune ne viendra m'étrangler 
Aucun nuage de brume dans mes yeux délavés 
Aucun sable ni la dune n'arrête le sablier 
Aucun quartier de lune, aucun...




Et demain tout ira bien, tout sera loin 
Là au final quand je prendrai le large 
Tout sera loin, donne moi la main 
Là au final quand je prendrai le large 

Aucun autre décor, aucun autre que toi 
Aucune clef à bord, aucune chance pour moi 

Et demain tout ira bien, tout sera loin 
Là au final quand je prendrai le large 
Tout sera loin, donne moi la main 
Là au final quand je prendrai le large 

Aucun requin, aucun air triste 
Aucun regret, aucun séisme 
Aucune langue de bois 
Aucun chaos, aucun, aucun... 

Et demain tout ira bien, tout sera loin 
Là au final quand je prendrai le large 
Tout sera loin, donne moi la main 
Là au final quand je prendrai le large






Images : en haut, photographie personnelle

en bas, extrait du clip de François Ozon